23 Mar 2023
By redazione Gimme5
Ti è mai capitato di conoscere persone di altre città e giocare a indovinare i significati di alcune espressioni dialettali? A noi è successo proprio di recente, parlando di un tema al centro del mondo Gimme5, i soldi.
La cultura, le tradizioni e le storie locali sono ciò che colorano l’Italia e che influisce anche sul nostro linguaggio.
Partendo dal Sud risaliamo lungo la penisola per scoprire come chiamiamo i soldi in alcuni dialetti italiani.
Anticamente sull’isola girava una piccola moneta in rame dal nome di “piccolo”, in uso fino all’800, paragonabile ai nostri 5 centesimi di euro.
Sul fronte si trovava la scritta “1” mentre sul retro era disegnata un’aquila. Oggi il termine che si usa per indicare i soldi deriva proprio da questa moneta: i Picciuli.
A Napoli sono diversi i termini che si utilizzano per indicate il denaro come Abbrunzo, che richiama la lega metallica (il bronzo) con cui un tempo si batteva moneta, O’ ppecunio che richiama il termine latino pecunia, ma il termine forse più usato è Paparelle.
Oltre a indicare i piccoli dell’anatra, per scoprire le origini del significato di nostro interesse bisogna risalire al nome di un facoltoso nobiluomo Aurelio Paparo, che fondò un Monte di Pietà per utilizzare il suo denaro per combattere la povertà. Anche la figlia, Luisa, sovvenzionata dal padre, fondò un conservatorio per donne povere chiamate dal popolo le paparelle. Da questo nomignolo prese il nome la strada napoletana, dove si trovava il tempio e, poi, il denaro.
Il romanesco è forse il dialetto più popolare e curioso d’Italia. Nella Città Eterna sono infatti diversi i modi con cui si indica il denaro, che variano in base alla sua quantità.
5 euro equivalgono allo Scudo, che ricorda la moneta che si usava nell’antica Roma.
100 euro invece vengono considerati ’na Piotta che ha diverse varianti: 50 euro sono “una mezza piotta” mentre 200 euro sono “2 piotte”, e così via. Questo termine deriverebbe dal nome del papa Pio IX che nell’Ottocento era raffigurato su una moneta.
1.000 euro sono chiamati un Sacco.
Tuttavia, nel linguaggio popolare rimangono molti riferimenti alla Lira (“non c’ho ‘na lira”, “nun vale ‘na lira”) e al Quattrino, una moneta di poco valore di epoca medievale.
Nel capoluogo toscano potresti sentir dire frasi del tipo “L’hai portati i dindi”.
Dindi, infatti, è il termine usato per indicare i soldi nella città di Dante.
In Emilia in denaro si indica con diversi termini, tra cui Bajûc, che deriva dai Baiocchi, una moneta d’argento emessa fino all’800. Da qui anche la ripresa del nome della Mulino Bianco per un suo biscotto al cioccolato la cui forma ricorda la moneta.
A Bologna si usa anche il termine Pilla, specialmente per indicare le capacità economiche famigliari (“Luilì si che ha della gran pilla!”).
Nel capoluogo ligure, il denaro viene indicato con il termine Palanche, per via di una moneta spagnola, il Blanco, che circolava in città intorno al ‘500. Storpiata poi in Planco e poi in Palanco, si cristallizzò in Palanca, in uso ancora oggi.
La parola dialettale che si usa in Veneto ha origini antiche: ai tempi del regno Lombardo-Veneto (1815 – 1866), quando la regione si trovava sotto la guida austriaca, venivano utilizzate alcune monete sulle quali era incisa la scritta Scheidemünze, ovvero, “moneta spicciola”.
Questa parola tedesca veniva italianizzata con l’abbreviazione Schei e, in versione singolare, Scheo.
Si dice spesso “esar senza schei” per indicare l’assenza di denaro, mentre “averghe quatro schei” per indicare l’opposto.
Esiste un atro termine utilizzato nel linguaggio dialettale per indicare il denaro: il Franco. Questo deriva da un’altra moneta austriaca che riportava la scritta Franc Ios Austriae Imperator, in riferimento all’Imperatore Francesco Giuseppe. Questo termine veniva usato principalmente per indicare certe quantità di lire.
Per i meneghini i soldi sono i Danè, termine antico che deriva dal denarius romano e dal dinar di origine islamica. Venivano usati anche altri vocaboli come “ghèi” o “geld” nel valore nominale della moneta.
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